Il vantaggio solo fortuitamente conseguito dall’ente, a seguito dell’operazione illecita commessa dai propri dirigenti, ne impedisce la condanna ex D.Lgs. 231/’01.
Una sentenza della Corte di Cassazione (Sez. II Pen., n. 37381/’20) ha fornito una chiara e corretta interpretazione sulla valutazione giudiziale dei requisiti dell’interesse, o del vantaggio, attribuibili all’ente quali presupposti per la sua condanna in sede penale. Come noto, al fine di evitare l’affermazione di responsabilità, la difesa dell’ente ha l’onere di confutare la tesi accusatoria fondata sull’esistenza del vantaggio in parola e può farlo, secondo questa recente pronuncia, anche dimostrando come lo stesso vantaggio si sia realizzato per caso fortuito e, come tale, non prevedibile. Così argomentando, l’ente può effettivamente sostenere che l’agente abbia agito nell’esclusivo interesse proprio, spezzando quel rapporto di immedesimazione organica che consente di ricondurre le azioni della persona fisica a quella giuridica e motivarne la condanna in capo a quest’ultima.
Nell’esprime il principio in parola la Corte, chiamata a decidere sul ricorso proposto da due società condannate nei precedenti gradi di giudizio, ex D.Lgs. n. 231/’01, per il reato di malversazione ai danni dello Stato, evidenzia come la stessa creazione degli enti, e le modalità con le quali a loro vantaggio erano state effettuate le operazioni fraudolente, rientrassero nel più vasto programma criminoso ordito dagli imputati “associati” che non avrebbe potuto realizzarsi se non attraverso le condotte illecite commesse dalle società ricorrenti, che ridondavano, in primo luogo, a favore delle stesse società e, poi, per loro tramite, anche a favore dei partecipanti ed organizzatori appartenenti al gruppo societario.
Da qui la conferma da parte della Cassazione delle precedenti condanne e un utile spunto interpretativo per gli operatori del diritto.